Nevrosi

Probabilmente non esiste, in medicina, un vocabolo che sia, a un tempo, più caratterizzato e meno specifico di quello di «nevrosi», paradossale fin dall'etimologia, per via del suo chiamare in causa i nervi, senza che questi risultino morfologicamente, fisiologicamente o patologicamente alterati. Uno storico della medicina ha mostrato recentemente come il significato del termine nevrosi si sia «rovesciato» nell'arco di un secolo (Neve, 2004). G. Gabbard (2005), peraltro, ha rilevato come una situazione di questo tipo abbia consentito e consenta, a curanti e curati, di pensare all'ansia - caposaldo sintomatologico delle nevrosi - nei termini di una malattia come le altre, e non come a una struttura sintomatologica sovra-determinata di un conflitto inconscio. Al giorno d'oggi, infatti, in psichiatria come nella società in cui viviamo, quel che appare in superficie conta più di ciò che agisce in profondità; si privilegia ciò che è manifesto in luogo di ciò che è latente. Non altrimenti potrebbe spiegarsi il declino della psicologia del profondo (la psicoanalisi) a vantaggio delle psicologie dell'adattamento e dell'adeguamento (cognitivismo e comportamentismo). Forse anche per questo il vocabolo «nevrosi», testimone della profondità di un certo patire umano, è radicalmente scomparso dalla nosografia psichiatrica contemporanea, che lo ha relegato nella bottega dell'antiquariato psicopatologico. Nella più aggiornata classificazione disponibile dei disturbi mentali (DSM-IV-TR, 2000), il termine nevrosi è infatti assente dalle intestazioni dei capitoli, dal testo e persino dagli indici. A ben guardare, il processo di smantellamento progressivo della categoria «nevrosi» dalla psicopatologia, ad opera della psichiatria statunitense, iniziato diversi anni prima come reazione all'«inva-sione di campo» della psicoanalisi nella stessa psichiatria statunitense, ha assunto caratteri progressivamente totalizzanti ed egemoni con le edizioni del DSM, che hanno cadenzato particolarmente gli ultimi vent'anni del secolo scorso. Categoria «maggiore» nella prima e seconda edizione, il vocabolo nevrosi compare solo più fra parentesi, nel titolo di un capitolo, nella revisione della terza versione (DSM-III-R, 1987): Anxiety Disorders (or Anxiety and Phobic Neuroses), per scomparire del tutto nelle ultime due rielaborazioni, quelle che chiudono il secolo della psicopatologia.

Al giorno d'oggi non tutti gli psichiatri, a dire il vero, la pensano in maniera così radicale, anche se la linea di tendenza appare indiscutibilmente quella accennata: all'interno dell'ICD-10 (1992), l'analoga classificazione messa a punto dall'Organizzazione mondiale della sanità, il concetto sussiste tuttora, anche se il capitolo che associa Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi ribadisce la conclusione della parabola esistenziale del concetto di nevrosi «come principio organizzativo essenziale», giustificandone la sussistenza sulla base di ragioni storiche, nonché per la supposta presenza di una quota di causalità psicologica, peraltro indimostrata, nella genesi dei quadri esaminati. Insomma, al giro di boa del terzo millennio, il concetto di cui qui ci occupiamo appare ridotto ai minimi termini, in nome della sua aspecificità (anche la maggior parte delle persone che ne sono affette appaiono consapevoli che sono «i nervi metaforici» ad essere malati nella nevrosi, e non 1 incili reali), della sua ambiguità («sono ammalato oppure no?»), della scarsa rintracciabilità sul piano obiettivo di quanto ipostatizzato nel profondo («ma dove è localizzata questa malattia?»). Ultimo, ma non meno importante, il venir meno dell'antinomia nevrosi/psicosi, che aveva orientato per più di un secolo la nosografia psichiatrica. Le psicosi restano, le nevrosi vengono smembrate e ribattezzate in base a ciò che appare. Eppure, proprio questo slancio critico, in nome di una supposta «pulizia» epistemologica (la deliberata scelta di «essere ateoretici») potrebbe equivalere al buttare il bambino con l'acqua sporca, eliminando insieme al vocabolo (e alle contraddizioni che, indiscutibilmente, reca con sé) anche il concetto di conflitto, che ne è alla base.

Conviene dunque, come non mai, affrontare il problema in una prospettiva storica. Nato nella seconda metà del '700, ottocentesco per diffusione e fortuna, il concetto di nevrosi deve però la sua sistematizzazione più articolata, nonché la messa a punto di una teoria psicopatogenetica, all'opera di S. Freud, a cavallo fra XIX XX secolo. È stato sostenuto, peraltro, dal suo fondatore, che la teoria delle nevrosi coincida con la psicoanalisi stessa (Freud, 1915-17). Quando il termine venne coniato, però, le cose non stavano così. Nel trattato di W. Cullen ( 1769) per la prima volta alla follia dei grandi quadri psichiatrici (vesanie) venivano affiancati dei disturbi, le nevrosi appunto, in cui a un malessere somatico (e, dunque, non psicologico né mentale, bensì caratterizzato da una sintomatologia localizzata a: cuore, intestino, muscolatura, ecc.) non veniva riconosciuta una causa organica, pur essendo supposta, e pur essendo ipotizzata a carico del sistema nervoso. Dunque, sul certificato di nascita, le nevrosi vengono definite «in negativo»: quadri di cui l'anatomia patologica non era (ancora) in grado di dimostrare la ragion d'essere. In seguito, nel corso dell'800, il concetto di nevrosi viene progressivamente delimitando una serie di malattie che avevano in comune alcuni elementi:

1) una definita localizzazione somatica, da cui nevrosi cardiache, gastriche, viscerali, ma anche isteriche (queste ultime causate, ad esempio, dalla localizzazione uterina della supposta disfunzione causale) e ipocondriache (forse meno localizzate, ma comunque interne all'addome);

2) l'assenza di elementi anatomopatologici evidenti per i mezzi diagnostici dell'epoca: né infiammazione né alterazioni di struttura dimostrabili;

3) la presenza di una gamma di comportamenti «nervosi» che accompagnavano il quadro doloroso: ipocondriasi, depressione, irritabilità, ipersensibilità, ecc.;

4) la convinzione che un'alterazione del sistema nervoso (-osi è il suffisso che in medicina indica un processo degenerativo, in questo caso a carico dei nervi) fosse determinante sul piano patogenetico.

Ecco perché, a tutti gli effetti, le nevrosi ottocentesche si costituiscono come patologie di competenza neurologica (e non, ad esempio, internistica, né tantomeno psichiatrica). Queste convinzioni subiscono alcune modifiche nel corso degli anni, influenzate dal magistero di alcune eminenti personalità. P. Janet (1898), sul finire dell'Ottocento, aveva ridotto a due i quadri nevrotici, distinguendo al loro interno isteria e psicoastenia; la prima dominata da drammatici sintomi ansiosi (gli attacchi di panico contemporanei), la seconda da una contrazione dell'esperienza vissuta su di una sintomatologia anancastica (il disturbo ossessivo-compulsivo dei nostri giorni). Gradualmente la convinzione di un fondamento biologico (presente eppure invisibile) delle nevrosi fu abbandonato: la tesi di Ph. Pinel (1801) secondo cui non esisteva un substrato organico patologico fu ripresa da J.-M. Charcot (1890): la causa delle nevrosi non poteva che essere psicologica. La teoria freudiana, pur nella sua evoluzione, prese allora gradualmente per quasi un secolo il posto di quanto ritenuto fino ad allora. Dobbiamo innanzitutto precisare che in Freud, neurologo per formazione, il termine nevrosi acquista valore in base a una serie di contrapposizioni. Da un lato l'antinomia nevrosi/psicosi, figlia della cultura del tempo che, per molti versi, è perdurata sino a buona parte del '900, fino a che, come si è detto, le nevrosi sono state cancellate dalla nosografia psichiatrica. Dall'altro, la contrapposizione in base all'eziologia, comunque psicogena, che Freud intende mettere in luce, da subito: nevrosi attuali (1898), causate da un disordine «attuale», non remoto, della vita sessuale, da un lato; neuropsicosi (1894a) o psiconevrosi (1915h), a loro volta contrapposte in psicosi di transfert e psicosi narcisistiche, dall'altro. Questi ultimi quadri avrebbero raggruppato, a differenza dei precedenti, una serie di affezioni psicogene dall'eziologia più «remota», individuata in maniera costante nella presenza di un pregresso conflitto psichico inconscio, risalente alla storia infantile del soggetto; tale antico conflitto si sarebbe costituito come compromesso tra un desiderio inaccettabile e un sistema difensivo inadeguato. Le psiconevrosi cosiddette «di transfert» comprendono al loro interno due gruppi, che potremmo definire «naturali» e «artificiali». Le prime si formano spontaneamente nella storia del soggetto, sulla base del meccanismo accennato; le seconde si costituiscono per via delle forze in gioco all'interno della relazione terapeutica, dove il loro destino è quello di essere affrontate. Oggi il termine «nevrosi di transfert» (e, per contiguità, psicosi di transfert, caratteropatia di transfert, perversione di transfert) è riservato a tali quadri. Differente è la situazione delle psiconevrosi cosiddette «narcisistiche». Al loro interno, le psiconevrosi da difesa vengono distinte da Freud, sulla base delle esperienze cliniche proprie, ma soprattutto grazie al contributo di Jung, Abraham, ecc., utilizzando come discriminante la possibilità di sviluppare il transfert analitico: quelle transferali da un lato, quelle «atransferali» dall'altro. Queste ultime raggruppavano schizofrenia, paranoia, nonché i disturbi oggi detti bipolari.

Dunque, il significato del termine muta nel tempo, e parecchio, anche nella stessa elaborazione freudiana (Laplanche e Pontalis, 1967). Possiamo comunque riassumere la posizione freudiana più matura, per la quale la nevrosi è l'espressione di conflitti tra l'Io e quegli impulsi sessuali che all'Io appaiono incompatibili con la propria integrità o con le proprie esigenze etiche. Sul piano nosografico le nevrosi appaiono così ben distinte da due ordini di patologie: da un lato, quelle che presentano elementi reattivi a un evento recente; dall'altro, quelle che, non potendosi sviluppare la dinamica transferale, restano insondabili dalla psicoanalisi. Tracciati i confini nosologici, occorre spendere qualche parola sugli elementi che, fin dai primi passi della psicoanalisi, appaiono costitutivi dei quadri nevrotici. Una parte di rilievo viene attribuita all'elemento sessuale. Il trattamento dell'isteria nell'ultimo decennio del xix secolo aveva persuaso Freud del ruolo fondamentale giocato dalla sessualità infantile nonché, all'interno di questa, da vicende di seduzione (Freud, 1898). Gli elementi riferiti dai pazienti come storici sembravano costituire un trauma causale alle origini della patologia. Le esperienza cliniche dei decenni successivi, però, persuasero sempre più Freud della possibilità che queste vicende fossero in buona parte commistioni tra fatti storici, rielaborazioni degli stessi e fantasie, o addirittura frutto integrale di fantasie infantili. Un secondo elemento di rilievo nell'organizzare la nevrosi è quello relativo alla dinamica conflittuale dei fattori in gioco. Secondo la teoria freudiana classica, infatti, il conflitto è essenziale per il costituirsi del quadro nevrotico. Conflitto può sussistere fra realtà interna ed esterna, ma anche nella contrapposizione fra istanze interne (Es e Super-io, ad esempio). Il conflitto, universale nell'esperienza umana, diventerebbe patogeno quando, non elaborato in modo realistico, viene espulso dalla coscienza (attraverso un meccanismo di difesa come la rimozione o altro). Questa espulsione non ne diminuisce però il potere patogeno: espulsi dalla porta, questi istinti rientrano dalla finestra sotto le forme sintomatologiche più varie: inibizioni, ossessioni, fobie, ecc. Ciò presuppone che nell'infanzia del soggetto un Io già parzialmente strutturato funzionasse così. Sul concetto di nevrosi, peraltro, la teoria psicoanalitica si è venuta costituendo, dando luogo a paradossi clinici notevoli. Si pensi, in particolare, al cosiddetto rapporto con la lealtà, considerato a più livelli il vero discriminante fra nevrosi (dove è conservato) e psicosi (dove è andato perduto). Si consideri il caso, ad esempio, di un paziente affetto da un gravissimo disturbo ossessivo, in grado di parassitarne l'esistenza tutta: le ossessioni inquinano ininterrottamente il pensiero, senza lasciare tregua; ininterrottamente il comportamento è prigioniero delle

compulsioni, senza un momento di libertà. Ne consegue l'impossibilità di svolgere alcuna attività, lavorativa come piacevole, la perdita di tutte o quasi le relazioni sociali. Qui si va ben oltre il conflitto, spesso percepibile «ad occhio nudo» nel disturbo ossessivo. Questo paziente conserva l'esame di realtà ? Non di rado, in queste situazioni, il clinico pratico creava l'ossimoro di «psicosi ossessiva», sconosciuto alla nosografia ufficiale. Oppure, su di un altro versante, si consideri una paziente affetta da una sintomatologia fobica di estrema gravità. Questa giovane donna si percepisce come allergica all'esistenza stessa, impossibilitata a entrare in contatto con alcuno; costei eviterà tutto quanto possa rassomigliare a un contatto, chiudendosi in un universo sempre più isolato. Anche in questo caso: è conservato l'esame di realtà? Nonostante queste problematiche di confine, occorre sottolineare come, a fronte delle rivoluzioni terminologiche attuali, per la maggior parte del XX secolo, nevrosi, psicosi e perversioni si siano spartite il piano della nosografia psichiatrica senza troppi... conflitti.

L'avvento degli psicofarmaci nella seconda metà del secolo scorso ha modificato, almeno in parte, anche questa situazione. A fronte di quadri che rispondono complessivamente bene alle molecole psicotrope, spesso in grado di ridurre gravità e pervasività della sintomatologia, esistono però molte situazioni in cui il farmaco entra a gonfie vele nel conflitto nevrotico, diventandone co-protagonista e alimentandolo a dismisura.

Esistono persone che abusano di benzodiazepine (molecole ansiolitiche), ma che non assumerebbero mai un antidepressivo, ritenendo psicofarmaco questo e non quelle. Rituali ossessivi, fobie, dipendenze nei confronti dei farmaci psicotropi sono vere e proprie manifestazioni di conflitti nevrotici, che il rapporto col farmaco irrobustisce e amplifica.

Non è fuori di luogo, dunque, chiedersi che cosa sia successo ai quadri nevrotici: si sono modificati per qualità o quantità, ad esempio, nel corso del '900 ? Oppure, a etichette diagnostiche nuove corrispondono semplicemente quadri psicopatologici conosciuti da tempo, seppure visti con un'ottica differente ? Indubbiamente, gli psichiatri contemporanei preferiscono dati più sensibili, più obiettivabili e più condivisibili; anche i medici, di questi tempi, sembrano avere più confidenza con la superficie e meno con la profondità. Per questo motivo segni e sintomi nevrotici visibili hanno preso il sopravvento, rispetto alle strutture soggiacenti. Questa è la ragione di molte fra le modificazioni terminologiche attuali. Oggi lo psichiatra pensa di vedere l'ansia del paziente e basta. Tuttalpiù, di poter distinguere fra ansia acuta (oggi: attacco di panico) e cronica (oggi: ansia generalizzata). Quando poi constata che l'ansia è legata a un oggetto, situazione, azione, ecc. che la innesca (ieri e oggi: fobia), si limita ad annotare l'oggetto fobigeno; ieri, invece, andava alla ricerca di un conflitto sottostante, l'angoscia provocata dal quale investiva un oggetto «innocente».

In questo contesto, forse in risposta all'eccessivo orientamento categoriale delle ultime edizioni del DSM, è facile prevedere per il futuro imminente alcuni fenomeni, molto vicini all'area delle nevrosi: nuovi consensi attorno a una prospettiva dimensionale; nuovi pensieri intorno alle patologie che appaiono più vicine alla normalità e meno distinguibili da essa; una rivalutazione della sintomatologia «sottosoglia». E’ altrettanto facile prevedere come la dimensione del conflitto, costitutiva della nostra esistenza, per molto tempo ancora non sarà eliminabile. Ancora oggi, ogni nostro simile, anche il più sereno, appare al centro di un'incessante at tività di mediazione fra i propri desideri, la propria libertà, le proprie aspirazioni e le limitazioni, le frustrazioni imposte dall'esistenza degli altri, della loro libertà, nonché dai limiti imposti dalla realtà stessa. In questo senso, l'uomo non potrà certo sbarazzarsi della nevrosi.

Nel 1951, a Roma, J. Lacan fece notare che per molti secoli, fino a Freud, in medicina nessuno aveva contraddetto Esiodo, secondo cui le malattie, inviate da Zeus sulla terra, avanzano sugli uomini in silenzio. Dopo Freud sappiamo invece dell'esistenza di malattie in grado di parlare, spesso in maniera oscura, altre volte più chiaramente, a chi riesca a sintonizzarsi con esse. I quadri patologici che fino a poco tempo fa abbiamo chiamato nevrosi ne erano il prototipo. Le malattie parlano, certo, a condizione di saperle ascoltare. Cancelliamo l'etichetta nevrosi, se non ci piace, ma stiamo bene attenti a non tapparci le orecchie.

PIERLUIGI POLITI